Momfluencer e tutela dell’immagine dei (loro) minori

Illustrazione @_nico189

Già a partire dagli Anni ’50 il cinema e la televisione ci hanno abituato alla nascita di piccole stelle nel firmamento della celebrità, bambini prodigio, veri e propri idoli dello show business.

Il fenomeno delle piccole celebrities ha coinvolto negli ultimi anni, con forme ed espressioni diverse, anche la rete e le piattaforme social, assumendo dimensioni sempre più vaste, e interessando oltre ai baby influencer, la cui età è sempre più bassa, anche le mamme e talvolta l’intera famiglia.

Family influencer e momfluencer, come le chiama il web con un hashtag che ha superato i 180 mila follower su Instagram: la maternità e la famiglia diventano dei brand che lavorano a tempo pieno sui social e monetizzano cifre da capogiro. Ma come è nato questo trend?

Le momfluencer non sono un fenomeno recente: sono apparse sulle piattaforme social, in particolare su Instagram, dopo il 2010 e sono l’evoluzione delle mamme blogger che, attraverso le medesime piattaforme, hanno costruito uno storytelling di successo sui propri figli, la propria maternità e la narrazione familiare, costruendo diari più o meno intimi della loro vita e di quella dei loro bambini, attraverso i quali possono arrivare a stringere collaborazioni molto remunerative con i marchi dell’infanzia o con i brand più generalisti. Nell’ultimo periodo il fenomeno ha colonizzato anche un altro social, levando ad Instagram il suo primato: Tik Tok.

Il lato oscuro del fenomeno

I brand le cercano, le agenzie di management si specializzano nella gestione dei profili e delle collaborazioni di queste nuove influencer, ogni giorno vengono prodotti migliaia e migliaia di contenuti. Questo nuovo modo di essere mamma, genitori e famiglia fornisce punti di vista variegati; offre consigli e crea delle occasioni di condivisone di un’esperienza che vivono la maggior parte delle persone, molto importante e gratificante, ma anche molto faticosa. Tuttavia, nell’ultimo anno la questione delle mamme influencer ha iniziato ad essere indagata con uno sguardo critico, anche in relazione all’esposizione dei minori e sui giornali hanno cominciato ad apparire articoli e reportage di approfondimento, favorendo un dibattito sul fenomeno. In uno dei primi articoli sul tema apparsi su The Guardian, la giornalista Rhiannon Lucy Cosslett sottolineava come il racconto patinato che spesso viene fatto della maternità su questi profili straripanti di madri sorridenti e perfette, sempre vincenti di fronte ad ogni performance, ritratte con in braccio paffuti e adorabili bambini nel miglior angolo di case perfette, non sia rassicurante ma rappresenti frustrazione in chi non può reggere questo modello. La narrazione insomma ha cominciato con il tempo a opacizzare i suoi stessi lustrini, con voci dissonanti che hanno evidenziato come molto spesso alcune di queste influencer, nel promuovere un prodotto o una collaborazione con un brand, si sostituiscano a voci autorevoli, arrivando a dare consigli di tipo medico o in generale sulla salute dei bambini.

L’esagerata condivisione online di contenuti riguardanti i figli da parte dei genitori ha un nome, sharenting, che unisce i termini share e parenting.

Questa pratica, oltre a proporre modelli diseducativi e potenzialmente lesivi per uno sviluppo psichico sereno dei bambini, li espone a pericoli connessi alla mercificazione della propria immagine e nei casi più gravi alla pedopornografia e agli usi impropri della loro persona online. È di qualche mese fa la richiesta di molti utenti di Tik Tok, uniti sotto l’hashtag SaveWren, di rimuovere dal social i contenuti pubblicati dalla madre di Wren Eleanor, bimba di tre anni seguita da 17 milioni di follower. Tra una sponsorizzata di Shein e quella per un conditioner per capelli da bambine, la madre ha iniziato a postare immagini dubbie, che ritraevano la bambina giocare con un assorbente interno, in costume o in altri atteggiamenti ritenuti ambigui, e che hanno attirato l’attenzione morbosa di uomini adulti, generando molti commenti offensivi o a sfondo sessuale e salvataggi delle foto e dei video.

Diritti e immagine: a che punto è la legislazione

Se è indubbio che le influencer possono decidere per sé e per la propria esposizione, diverso è il caso dei bambini che devono subire questa continua vetrinizzazione sociale senza poter prestare alcun tipo di consenso informato. Uno degli snodi del dibattito riguarda proprio la regolamentazione e i disegni di legge a tutela dello sfruttamento dell’immagine dei minori. Arriva da oltralpe la prima proposta per regolamentare la presenza dei baby influencer sui social: presentata nel 2019 in Francia dal deputato di En Marche Bruno Studer, la legge votata nel 2020 sullo “sfruttamento commerciale dell’immagine dei minori di sedici anni sulle piattaforme online” regolamenta la collaborazione tra minori e brand, definendo orari, tutele e obblighi dei genitori nella gestione dei proventi ricavati dallo sfruttamento dell’immagine dei figli. Il caso del nostro Paese mostra la latitanza non solo di una legge, fatta eccezione per la Carta di Treviso del 1990, ma anche di un serio dibattito che porti a delle proposte concrete.

L’attività dei baby influencer, con una sovraesposizione continua sulle piattaforme social e una precoce attivazione dell’esibizione personale a fini di lucro, può compromettere lo sviluppo sano ed equilibrato di cui ha diritto un bambino, come ha ammonito nei mesi scorsi Carla Garlatti, Garante per l’infanzia e l’adolescenza.

Nonostante anche l’Italia sia allineata alla direttiva europea che vieta ai minori sotto i 14 anni di avere un profilo social, abbassando l’età a 13 anni qualora sia comprovata l’associazione al profilo di un adulto, la realtà è ben diversa ma intreccia addirittura la questione dello sfruttamento.

Fare l’influencer è considerato un lavoro in piena regola e per la nostra legislazione il lavoro minorile sotto la soglia dei sedici anni è vietato, trattandosi di “un’attività lavorativa che priva i bambini e le bambine della loro infanzia, della loro dignità e influisce negativamente sul loro sviluppo psico-fisico”. L’unica eccezione riguarda i lavoratori dello spettacolo (Legge n. 977/1967 e D.M. 27 aprile 2006, n. 218 che è oggi estensibile anche alle attività svolte dai baby influencer), i quali necessitano comunque di autorizzazioni da parte dell’Ispettorato nazionale del lavoro che, insieme al consenso dei genitori, ha l’obbligo di verificare il rispetto di una serie di tutele legali, psico-fisiche e sociali. Poiché molte delle responsabilità di controllo e tutela vengono di fatto demandate ai genitori, che possono essere loro stessi influencer che grazie al proprio figlio hanno costruito una presenza online, le maglie del controllo si fanno molto più lasse e la tutela rischia di non essere sempre puntuale. Dal tavolo tecnico sulla tutela dei diritti dei minori nel contesto dei social networks, dei servizi e dei prodotti digitali in rete organizzato dal Ministero della Giustizia con la partecipazione dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali e l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni è emersa la necessità di una evoluzione del diritto all’informazione legato al diritto alla privacy. Per costruire ambienti digitali safe è necessario regolamentare anziché vietare, proteggendo l’identità digitale dei minori e tutelando il diritto alla privacy, la protezione dei dati personali e il diritto all’oblio, ovvero la possibilità di rimuovere le immagini pubblicate senza consenso esplicito.

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