La comunicazione dal basso spicca il volo

I risultati raggiunti dall’Italia nella raccolta dei rifiuti sono davvero importanti e in controtendenza rispetto alla nomea del nostro Paese rispetto ai comportamenti virtuosi. 

Un risultato che fra poche righe analizzeremo più nel dettaglio, ma che si fa portatore di una caratteristica: la comunicazione partita dal basso, dalla scuola, con progetti diffusi di educazione e cultura ambientale, ha accelerato l’approccio di cittadini e aziende, proiettando un risultato in cui si registrano praticamente solo vincitori. La domanda che ci poniamo dunque è: questo schema è ripetibile in altri contesti? Perché non si è fatto o si sono incontrate delle resistenze? Ma andiamo con ordine.

Raccolta di carta in un centro di lavorazione (Fonte: Shutterstock)

Il rapporto Unirima (l’Unione nazionale delle imprese di recupero e riciclo macero che rappresenta il 90% delle aziende del settore per volumi gestiti) del 2021 conferma che il tasso di riciclo degli imballaggi di carta e cartone in Italia è arrivato all’87,3%, superando con quindici anni di anticipo l’obiettivo europeo fissato all’85% entro il 2035. Nonostante il ciclone Covid – viene spiegato dal rapporto – «il settore ha retto e, dopo la crisi che aveva determinato il crollo dei prezzi, le quotazioni della carta da macero sono aumentate». Il totale della raccolta di carta e cartone in Italia, che avviene attraverso i canali domestici e industriali, è pari a circa 7 milioni di tonnellate; la carta da macero in uscita dagli impianti di recupero è salita da 6,56 milioni di tonnellate del 2019 a 6,77 milioni di tonnellate del 2020, con un incremento del 3,2% circa.
Se la carta sorride, anche il resto dei rifiuti conferiti non ha da lamentarsi.
Ad oggi siamo secondi solo alla Germania in termini di quantitativi di imballaggi riciclati, e nel disgraziato 2020 è stato rigenerato il 73% delle confezioni immesse sul mercato con i prodotti al loro interno, cioè 3,3 punti percentuali in più rispetto al 2019. Il Conai ha seguito il 52% del riciclo, gli altri sistemi indipendenti o privati hanno raggiunto il resto.

Fin qua i numeri. Importanti. Motivanti (solitamente leggiamo di Italia fanalino di coda nelle classifiche europee, no?!). Ma come si è arrivati fino a questi risultati? La data di partenza è il 5 febbraio 1997, quella del Decreto Legislativo n° 22 conosciuto come “Decreto Ronchi”, emanato per rendere efficaci le direttive europee sui rifiuti urbani, sui rifiuti pericolosi e sugli imballaggi. Questa legge rappresentava il principio cardine della gestione dei rifiuti nel nostro paese, fino a quel momento assai frammentata, e stabiliva delle norme precise per:

  • Ridurre la produzione dei rifiuti
  • Incentivare il recupero ed il riciclo
  • Aumentare la coscienza ambientale dei cittadini
  • Creare una collaborazione attiva tra imprese e comuni

Import-export di macero, 1998-2020, Italia (Fonte: Rapporto Unirima 2021)

Possiamo con un certo orgoglio affermare che i quattro obiettivi sopra riportati sono stati raggiunti – magari in certe zone del Paese meno rispetto ad altre – e sarebbe interessante approfondire il perché di questa progressione virtuosa che ci ha visti, e ci vede, protagonisti.
Soffermandoci principalmente sul terzo punto, “Aumentare la coscienza ambientale dei cittadini”, perché ripercorrendo un percorso di oltre vent’anni di sensibilizzazione si potrebbero trovare degli spunti per le sfide ambientali (ma non solo) di oggi.
In prima battuta, ci siamo riusciti perché il conferimento dei rifiuti è un argomento politicamente bipartisan, e abbiamo assistito a medaglie apposte sul petto di esponenti di sinistra come di destra e centro: tutti sono lieti del proprio ‘comune riciclone’ (cit. Legambiente), dell’isola ecologica funzionante, dell’impianto di compostaggio efficiente, mentre una certa impostazione ambientalista rigorosa e intransigente non ha lo stesso appeal in sede di discussione sul cambiamento climatico. Insomma, al netto di infiltrazioni mafiose e appalti truccati, che non sono oggetto di quest’analisi, possiamo affermare che la politica NON ha ostacolato il percorso virtuoso della cosiddetta ‘raccolta differenziata’.
In secondo luogo, questa stabilità a livello politico e normativo ha favorito gli investimenti in ricerca di parecchie aziende, italiane ed estere, che hanno immesso nel mercato attrezzature, macchinari, sistemi di conferimento e di verifica sempre più performanti da una parte, e dall’altra hanno saputo (ri)creare filiere completamente nuove adoperando carta, plastica e vetro riciclati, pensiamo al rPET per citare un esempio di successo.
Per terza, e arriviamo al dunque, citiamo la comunicazione. Per la precisione, la comunicazione dal basso. Questo clima di fiducia – ripetiamolo: normativo, politico, industriale – ha favorito un percorso formativo della popolazione che ha avuto nell’educazione ambientale nelle scuole il suo cardine. Chi scrive crede che buonissima parte del successo del ciclo virtuoso dei rifiuti oggi premiato dalle statistiche dipenda da quel paio di generazioni di italiani che in questi quasi cinque lustri hanno appreso, messo in pratica e trasferito (ai genitori, ai nonni, ai vicini) in merito ai rifiuti, assorbendo un senso civico e una sensibilità entrata in parte nel nostro DNA. In questo la comunicazione ha avuto un ruolo fondamentale, attraverso la parola, gli stampati, gli oggetti multimediali, senza dimenticare l’esempio pratico (laboratori di riciclo, giornate ecologiche, confronto adulti-ragazzi con quesiti e risposte, visite presso i centri di trasformazione dei rifiuti).

La domanda ora sorge spontanea e pulsa come cuore di questo intervento: questo circolo virtuoso perché non si è riproposto in altri ambiti educativi?
Ne prendiamo ad esempio due: la sessualità e la salute.
L’Italia è tra i pochi paesi dell’Unione Europea a non prevedere l’insegnamento dell’educazione sessuale come materia obbligatoria: gli altri sono la Bulgaria, Cipro, la Lituania, la Polonia e la Romania. In assenza di un programma ministeriale da seguire, ogni istituto scolastico può decidere se e come affrontare la questione, chi coinvolgendo qualche insegnante volenteroso, chi aderendo a iniziative regionali, altri ancora si affidano ad associazioni esterne di varia natura. Il risultato è una scarsissima alfabetizzazione a livello emotivo, sociale, relazionale e fisico della sessualità.
Sul tema sanitario, è dal 2018 che il tema dei vaccini viene preso sottogamba da istituzioni e medicina, con lo stupore anche di certi giornalisti. Così scriveva ‘La Stampa’ il primo settembre 2019 a firma Enrico Caporale: «Ma come mai, nel (…) terzo millennio, c’è ancora bisogno di una legge che sancisca l’obbligatorietà dei vaccini? Perché medici e scienziati non riescono a tradurre in fiducia le prove a loro favore? E da dove nasce il sentimento di diffidenza nei confronti di governo e istituzioni sanitarie?». Amico mio, non c’è da stupirsi: l’antivaccinismo è nato ASSIEME ai vaccini, a fine ‘700, e non certo per ‘colpa’ del web (che è diventato invece un ottimo moltiplicatore di propagazione, accessibile e a basso costo, per rimettere in circolo certe teorie), ed è pertanto permeato nel nostro DNA.

Illustrazione di James Gillray del 1802 che ironizza sugli antivaccinisti che credevano che il vaccino contro il vaiolo trasformasse i vaccinati in mucche (Fonte: Wikipedia)

Abbiamo una scuola che si è dimostrata straordinario veicolo di coscienza civica nel caso dell’educazione ambientale, e completamente abbandonata a se stessa quando si tratta di infondere fiducia e consapevolezza ai ragazzi e ai genitori in tema di vaccini e rapporti sessuali prima della maggiore età. Al netto di una mancata aderenza ideologica a livello politico, incolmabile nel breve periodo, è proprio una consapevolezza di fondo a sfuggirci: che lo strumento principale non è – per fare un esempio – il contraccettivo in sé, ma la spiegazione del contraccettivo da trasmettere attraverso una comunicazione studiata in modo diverso a seconda del ricevente (studente, genitore, insegnante). Parafrasando un vecchio slogan, altro che “prevenire è meglio che curare”: l’incertezza, la non completa conoscenza, la mancanza di riferimenti, di strumenti educativi e di una comunicazione strategica, studiata non a fini propagandistici ma con obiettivi di sano miglioramento sociale, ci porta a preferire sempre la cura e a diffidare della prevenzione. Il caso virtuoso dell’educazione ambientale partita dal basso è un esempio da seguire, anche perché scevro degli ingredienti classici della propaganda politica (la paura, il nemico, l’ideologia), perché la vecchia ‘cura’ del cassonetto indifferenziato era diventata anacronistica, e serviva il gesto ‘preventivo’ del singolo conferimento da attuare in ogni nucleo familiare.
La comunicazione è fondamentale, e l’auspicio è che nelle varie task force e nei comitati tecnico-scientifici entrino stabilmente degli esperti di tale materia, senza aspettare il lampo ‘generoso’ di qualche archistar (ne parlammo qui alla fine dello scorso anno: le primule sono appassite prima dell’arrivo della primavera) o il poetico clip di un regista affermato. Spesso si sente dire da diversi esponenti e commentatori che durante la pandemia ‘si è sbagliata la comunicazione’, ma l’analisi si ferma al commento e, soprattutto, avviene a livello ombelicale: il classico, sterile, parlarsi addosso. Se il problema è la caldaia si chiama il tecnico della caldaia, non chi l’ha progettata; se il problema è la comunicazione si lascia il messaggio in mano al medico o allo scienziato: perché? Mettetela AL CENTRO la comunicazione, mettetela ALLA BASE la comunicazione. E fatela coltivare a chi la sa far crescere come si deve: raccoglieremo tutti frutti migliori.

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