Impresa e sostenibilità tra greenwashing e processi virtuosi

Illustrazione @_nico189

Negli ultimi anni e in particolare nell’ultimo periodo, le imprese sono chiamate a diventare protagoniste attive di un cambiamento considerevole riguardo alla sostenibilità ambientale.

A partire dall’Accordo di Parigi che l’Unione Europea e gli stati membri hanno definito e ratificato, è stato fissato l’impegno di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Per questa ragione, l’UE ha definito i piani strategici entro il 2020, sottoscrivendo l’impegno di ridurre le emissioni nocive di almeno il 55% rispetto ai valori del 1990 entro il 2030. Un ruolo importante lo devono svolgere le aziende, che si possono rendere protagoniste attive dell’impegno a contrastare il cambiamento climatico senza che le dichiarazioni di sostenibilità si configurino come un’abile operazione di maquillage green priva di fatti che la sostanzino. Con l’aumento dell’attenzione alla questione ambientale, infatti, è cresciuto anche un fenomeno legato alla comunicazione che ha preso il nome di greenwashing. Ma cosa significa esattamente?

Si tratta di una strategia di comunicazione e marketing adottata dai brand allo scopo di “tingere di verde” la propria attività, per accrescere la propria reputation ed immagine attraverso la citazione continua di temi legati alla ecosostenibilità senza che questi vengano poi supportati da logiche produttive effettivamente rispettose dell’ambiente.

Molto spesso, questi richiami generici ad una altrettanto generica sostenibilità hanno, infatti, lo scopo di confondere il consumatore, attirando l’attenzione su un piccolo aspetto, nascondendo la reale mancanza di politiche di sostenibilità ambientale o, peggio ancora, il dannoso impatto delle loro attività.

Nonostante le operazioni di greenwashing rappresentino un boomerang per le aziende, poiché minano la fiducia dei consumatori e macchiano l’immagine dei brand, sono molti i casi di operazioni spacciate come eco-friendly da colossi industriali e multinazionali.

Coca-Cola nel 2021 è stata citata in giudizio con l’accusa di pubblicità ingannevole da un’associazione ambientalista, la Earth Island Institute. Secondo l’accusa, la multinazionale “inquina più di qualsiasi altra azienda di bevande e lavora attivamente per impedire misure di riciclaggio efficaci negli Stati Uniti”. Al centro della controversia le due campagne sul risparmio di plastica “Every Bottle Back” e “World Without Waste”: con 2,9 milioni di tonnellate di plastica all’anno, Coca-Cola è uno dei maggiori produttori di PET al mondo, che si è anche opposto alle “bottle bills”, le leggi per favorire il riciclaggio efficiente. Anche Eni è stata raggiunta da un provvedimento per pubblicità ingannevole dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM). Tra il 2016 e il 2019 la comunicazione relativa al diesel “ENIdiesel+” presentava il nuovo carburante addizionato con sostanze vegetali come green e rinnovabile, con la capacità di favorire un taglio fino al 40% delle emissioni di CO2. Uno studio della Comunità Europea ha dimostrato che il diesel prodotto non riduceva le emissioni ed Eni è stata multata dal Tar del Lazio a pagare la somma di 5 milioni di euro. Sul fronte dell’abbigliamento le cose non vanno meglio.

Si stima che l’industria del fast fashion concorra a produrre il 2% delle emissioni globali, pari a un miliardo di tonnellate di gas serra l’anno, senza considerare l’aspetto di non sostenibilità sociale legata allo sfruttamento del lavoro e degli addetti che, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, sono occupati nel settore senza tutele e protezione legale.

Rispetto poi alla comunicazione, anche brand come H&M o Zara sono stati accusati per avere presentato come sostenibili alcune linee prodotte con cotone biologico, esibendo però poca chiarezza sulle effettive percentuali di materiali riciclati o organici all’interno dei capi.

Ai brand, quindi, sembra costare meno investire in comunicazione con risultati comunque non trasparenti e il rischio di sanzioni pecuniarie, anziché adottare nuove misure in grado di rafforzare virtuose politiche ambientali. Queste strategie di sviluppo non tengono conto però di due fattori: uno di tipo legale e uno, di medio raggio, economico.

Se è innegabile che gli investimenti per rendere le aziende e i processi produttivi il più possibile green sono corposi e pesano in maniera sostanziale sui budget, è altrettanto vero che si stanno rivelando sempre più necessari anche alla luce delle nuove disposizioni UE per riallineare i settori industriali, produttivi e dei servizi agli obiettivi climatici da raggiungere entro il 2030. Per la“Fit for 55“, l’iniziativa che promuove il taglio delle emissioni di gas serra (GHG) del 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, anche le compagnie aeree dell’Unione Europea avranno l’obbligo di pagare per le emissioni di CO2 in eccesso.

Sul fronte della comunicazione ingannevole, è di pochi giorni fa l’approvazione della Corporate Sustainability Reporting Directive, la direttiva che impone alle grandi aziende europee di rendere pubblici i dati sul loro impatto ambientale e sociale, effettuando controlli e certificazioni che punteranno a smascherare soprattutto azioni di greenwashing.

Questa nuova direttiva punterà dunque a perseguire una maggiore trasparenza e verrà applicata a tutte le grandi aziende secondo tempistiche diverse: dal 2024 coinvolgerà le multinazionali con più di 500 dipendenti; dal 2025 le imprese con più di 250 dipendenti e/o un fatturato di 40 milioni di euro. Oltre però agli aspetti legali c’è una questione economica che non è immediatamente misurabile ma proietta uno scenario non troppo lontano. Durante il World Economic Forum di Davos, la società Deloitte ha presentato il Global Turning Point Report 2022: se in una situazione di cambiamento climatico nel 2070 si assisterà a una perdita di Pil medio del -7,6% annuo, con una transizione energetica accelerata si potrebbe arrivare a guadagnare, nei prossimi cinquant’anni, 43 trilioni di dollari. Di fronte a dati e proiezioni, tuttavia, non si può trascurare il fatto che l’adozione di politiche sostenibili si rendono necessarie per riuscire a conciliare un nuovo equilibrio e nuovi modelli di business aziendale, che affrontino la questione della sostenibilità da un punto di vista più generale, coinvolgendo oltre al pianeta, le persone e dunque l’impatto sociale dell’impresa, passando da un cambio di organizzazione e mentalità culturale del lavoro e dei sistemi di produzione che devono essere inclusivi e rispettosi dei diritti umani.

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