Da receptionist a fondatore di una start up che fattura milioni in un anno; da studentessa a content creator e influencer. Il mondo digitale sembra il nuovo Eden della taumaturgia imprenditoriale, luogo dove l’ascesa sociale ed economica è fatta di trampolini di lancio e strade lastricate d’oro.
La comunicazione di questi fenomeni da parte dei social viene ripresa sempre più spesso dai quotidiani che imbastiscono a loro volta racconti confezionati ad hoc, basati sull’attivazione di emozioni e sentimenti polarizzati, con una sempre minore attenzione alla verifica delle informazioni e delle fonti. Ecco dunque che leggiamo racconti perfetti, le cui protagoniste sono persone che in meno di un anno hanno costruito start up e aziende dal nulla, il più delle volte partendo da situazioni normali o addirittura di difficoltà economiche. Ecco quindi interviste a ragazze poco più che ventenni che fondano brand di moda o gioielli e in poco tempo conquistano il mercato, o giovani camerieri che aprono start up nella ristorazione da milioni di euro di fatturato. Del resto ci sono poche cose che troviamo più avvincenti di una favola su come superare le avversità e raggiungere un rapido successo con le proprie forze. Ma se alcune di queste storie di business straordinario sono effettivamente reali, molte altre, raccontate con un processo che mescola esaltazione e sacrificio, devozione e dedizione, nascondono retroscena che di straordinario hanno ben poco.Capitali preesistenti, background di ricchezza diffusa e solida, una rete sociale particolarmente privilegiata, percorsi di studio all’estero in istituti prestigiosi: dietro queste storie di successi esplosivi, spesso ottenuti solo con il duro lavoro e l’abnegazione, ci sono condizioni che esulano dal binomio fortunato del self made entusiastico del “volere è potere” e che però non vengono mai approfonditi né raccontati. O, in altri casi, queste storie non sono poi così patinate come sembra.
- ammirazione/desiderio di emulazione, se la storia è positiva
- solidarietà, se la storia è negativa
- indignazione, sempre e comunque, insieme alla rabbia, è l’emozione che maggiormente pervade gli scambi tra gli utenti sulla questione del giorno
- Come ultimo istinto quello della curiosità, che è alimentata dalla viralità e a sua volta la alimenta
Francesco Oggiano, digital journalist freelance e cofondatore di Will, alle questioni strettamente correlate all’utilizzo dei social e alla presenza online, come la rabbia e “l’attivismo performativo”, nel rapporto con i brand, ha dedicato il libro “Sociability”.
Nella sua indagine, l’autore mostra un meccanismo abbastanza conosciuto per il quale l’algoritmo predilige contenuti che suscitano stupore e il più delle volte indignazione, da cui nascono le “fuck news”, ovvero notizie parziali che eliminano dettagli importanti o il contesto nel quale la notizia si è sviluppata, per focalizzarsi solo sulla parte che può generare dapprima stupore e poi indignazione e rabbia. La rabbia, sui social, è infatti una professione e spesso viene confusa con un altro fenomeno, sempre più spesso legato alla costruzione di un successo personale: quello dell’attivismo e degli influencer. Se infatti fino a qualche anno fa l’attivismo comportava solo azioni vere, impegno tangibile e una esposizione oltre like e condivisioni, oggi vediamo il diffondersi di un attivismo che Oggiano definisce con la felice espressione “performattivismo”, ovvero un fenomeno che unisce performance e attivismo.
L’autore infatti ammonisce a prestare attenzione a chi è attivista anche sui social e a chi lo è solo sui social: si tratta in questo caso di creators, star o talvolta aziende, che producono post e contenuti allo scopo di veicolare il proprio profilo, il proprio brand o la collaborazione a pagamento con l’azienda che ha deciso di cavalcare la causa del momento per creare engagement. In questo senso le cause che stanno spopolando sui social sono raggruppabili in alcuni macrotemi: il cambiamento climatico, i diritti civili e l’identità di genere, il femminismo e il razzismo. Si assiste quindi ad uno spostamento dell’autorevolezza: dai giornalisti e dagli esperti, per trovare risposte e informazioni rispetto a questioni di ordine politico, civile e sociale, il mondo della rete si orienta verso influencer e content creators, che spesso coniugano la possibilità di offrire un’informazione di facile accesso e molto semplice ad un contesto rassicurante ma anche di successo e quindi degno di rispetto.
I social che in passato erano uno svago dal mondo stanno sempre più diventando il luogo dove si cerca di incontrare e scoprire il mondo. In questo nuovo clima, "influenzare" sembra una carriera praticabile e soprattutto rapida, che garantisce uno stile di vita potenzialmente di lusso con una soglia di ingresso relativamente bassa.
I nuovi influencer, i creators e i coach sono guru delle relazioni, esperti finanziari, attivisti; alcuni offrono persino insegnamenti su come emulare il loro successo.
Ma queste narrazioni apparentemente innocue non sono mai neutre, anzi possono rivelarsi disfunzionali per chi ne fruisce passivamente e si immedesima nel sogno di un successo facile e veloce e rischiano di sviluppare al contempo un senso di inadeguatezza e squalificazione del proprio percorso personale, come hanno iniziato ad ammonire esperti di psicologia e sociologia. La facile accessibilità alla rete e la relativa semplicità nel proporsi come imprenditori digitali che, attraverso il modo dei social network possono costruire un business da zero, stanno da un lato creando un senso di performance tossico in chi non riesce a riprodurre la medesima forma di successo, dall’altro edificano una retorica del self made che si sostituisce al valore stesso della persona. Come fare dunque per mantenere il lato buono dei social e di tutta l’oggettiva quantità di vantaggi che hanno portato nelle nostre vite? Di nuovo Oggiano ci fornisce una possibile risposta: mantenere una sana curiosità verso questi fenomeni che sono ormai parte integrante delle nostre esistenze e della nostra socialità e al contempo promuovere l’adozione, a livello strutturale e nelle scuole, di corsi di media litercy ed educazione civica digitale, già diffusi in Nord Europa ma assenti dalle agende politiche del nostro paese. E infine ricordarsi che “quando una notizia o una storia ti sembra troppo bella per essere vera, spesso non è vera. È sempre, sempre, più complessa. E magari pure più bella”.